Pian piano, l'aspetto "disumanizzante" di certa pratica strumentale sta venendo fuori...
Come per articolare un pensiero, bisogna conoscere le "parole giuste" per esprimerlo, così in musica: il punto è possedere il vocabolario tecnico che ci serve o serve nel contesto in cui si opera.
Per gli accademici, non c'è speranza: la "sofferenza" supera la gioia, perchè l'addestramento prevede come affrontare le "gimkane" della pagina scritta e di una moltitudine di "sensibilitÃ* diverse" (compositori)
Negli altri generi, dipende da quali aspetti si è attratti: la potenza, l'energia, la spettacolaritÃ*,
la danzabilitÃ*, l'intimismo...che ciascuno deve riconoscere in se stesso ovvero durante lo studio, bisogna essere capaci di sviluppare la propria capacitÃ* autocritica con discernimento e comprendere quali sono gli aspetti (suono, articolazione, agogica, dinamiche ecc) che ci piacciono e vengono facili e quelli su cui bisogna lavorare, ma se c'è un obiettivo di fondo da raggiungere, non fine a se stesso.
Tzadik ha detto una triste veritÃ*: i gruppi non posseggono piu' una "base comunitaria" - per intenderci, il quartetto di Coltrane, passava giornate a fare take dello stesso brano fino a quando il grupppo suonava come "entitÃ* unica"; Sun Ra ha tenuto in piedi un orchestra per 30 anni, autoproducendo i suoi dischi...
Se si incontrano degli "estranei" per suonare, tutto 'sto feeling e interplay scatta se c'è comunanza di intenti...e "magie" in tal senso non possono accadere immediatamente... anche se talvolta può accadere anche il contrario, quando si è in particolare "stato di grazia"...