Va in scena domani, lunedì 29 novembre alle 20.30 al Teatro del Gatto (tel. 078 733 66 12), l’ultimo concerto della stagione autunnale del Jazz Cat Club, che propone uno dei grandi pianisti storici del jazz, George Cables. 78 anni, in splendida forma, l’artista di New York ha vissuto in prima persona l’epoca d’oro del jazz a partire dalla metà degli anni 60, militando in alcune delle più celebri jazz band della storia e collaborando con grandi musicisti come Art Blakey, Freddie Hubbard, Sonny Rollins, Art Pepper o Dexter Gordon. Cables ha condotto anche molte band a suo nome e ad Ascona sarà accompagnato da un quartetto di altissimo profilo comprendente anche il noto sassofonista italiano Piero Odorici, con cui abbiamo scambiato due parole.

Piero Odorici, bentornato ad Ascona. Ci eravamo lasciati nel 2010 con un memorabile concerto che ti vedeva protagonista assieme al compianto Cedar Walton. Che cosa accomuna e differenzia due grandi pianisti come Walton e Cables?

Li accomuna senz’altro il fatto di essere entrambi grandi compositori, due eccezionali accompagnatori e due artisti dotati di una fortissima personalità. Oltre a un background leggermente diverso perché George aveva una formazione classica, a differenziarli c’è forse l’età. Walton è di una decina di anni più anziano di Cables, ed era già un artista affermato quando questi si affacciava sulla scena jazz.

Sei conosciuto per aver collaborato con grandissimi jazzisti americani, averli incisi e portati in giro in Italia e in Europa. Che cosa ti ha spinto in quella direzione?

Parlerei di predisposizione, perché sin da bambino ho ascoltato moltissimo jazz nero, quello suonato dai grandi musicisti afroamericani. È stata quindi una cosa del tutto naturale sognare d’incontrare e poter suonare con tutti quei grandi artisti. Il primo con cui collaborai fu il trombonista Slide Hampton che incontrai a Roma nei primi anni 90.

C’entra quindi l’amore smisurato per un certo jazz mainstream degli anni 60.

Assolutamente, è tutto lì. L’ispirazione è quella. È una musica bellissima, senza tempo, che oggi ancora è amata dal pubblico e da molti musicisti, anche giovani. È anche una musica piuttosto esigente. Come la classica, il jazz ha infatti le sue regole, che non si possono ignorare.

Con George Cables vi lega un’amicizia che dura da oltre vent’anni. Come vi siete conosciuti? E che cosa apprezzi di lui come persona?

George l’ho conosciuto a Roma nei primi anni 80 perché veniva spesso in Italia, invitato dall’amico Giulio Capiozzo, il batterista dei leggendari Area, che era un grande appassionato di jazz e che conoscevo perché mi capitava di suonare con lui e coi nuovi Area, che Capiozzo aveva rifondato dopo la morte di Demetrio Stratos. La prima volta su un palco con George è stato invece a New York nel 2001, prima tappa di un tour che facemmo assieme quell’anno negli States. Da allora abbiamo suonato spessissimo assieme, parliamo di centinaia di concerti. Che cosa apprezzo più di lui? Tutto direi. La sua modestia, l’umiltà, la sua capacità di essere sempre positivo, la sua paziente disponibilità a condividere la sua arte. George è uno che vuol sempre imparare e migliorare e quindi con lui impari tantissimo. È curioso come questi tratti lo accomunino a Cedar Walton e a molti altri grandi musicisti del jazz che ho conosciuto.

A parte il curriculum artistico impressionante, musicalmente parlando che cosa lo rende davvero un grande?

Sicuramente la sua straripante personalità. George, come del resto Cedar, è uno che fa due note e lo riconosci subito. Il suo sound è davvero distintivo, ed ha influenzato le successive generazioni di pianisti.

George che cosa ti ha raccontato dell’ambiente jazz nella New York degli anni Sessanta? Ho letto che veniva chiamato ‘Mr. Beautiful’.

Per la verità era Art Pepper che lo chiamava così, perché George oltre a essere un bell’uomo suonava da Dio, mettendo nella sua musica un cuore, un pathos tali da creare meraviglia e farti esclamare: “Wow, it’s beautiful!” . Di aneddoti su quel periodo George me ne ha raccontati tantissimi, ma in buona parte, per decenza, non si possono raccontare, tanto meno riguardo a due artisti importanti nella sua carriera come Dexter Gordon e Art Pepper, che lo vollero al loro fianco nel momento del loro ritorno sulle scene dopo lunghi periodi bui e difficili: il primo, notoriamente, abusava di alcol e il secondo era tossicomane. Art Pepper, per dirne una, quando arrivava in una città per prima cosa andava in banca a depositare l’eroina in una cassetta di sicurezza. Ma a parte queste cose, dovevano esserci a New York un ambiente e un’energia incredibili. Ovunque ti giravi ti capitava d’incontrare i mostri sacri del jazz. Suonavano ovunque, nei tantissimi club della città. E poteva capitare che Duke Ellington ti chiedesse di aprire un suo concerto. Cosa che successe realmente a George poco più che ventenne con i Jazz Samaristans, band da lui fondata con Steve Grossman e Billy Cobham.

Il concerto sarà un po’ ripercorrere l’epoca aurea del jazz degli anni 60?

Sì e no. Faremo chiaramente un paio di standard, ma soprattutto suoneremo la bellissima musica originale scritta da George dagli anni Ottanta a oggi. L’influenza, certo, è quella ma alcune cose hanno anche un tocco più moderno.