In senso stretto, e sempre che vi siano altri sensi, per poliritmia si intende, semplicemente, l’impiego contemporaneo di ritmi diversi nel contesto di una medesima esecuzione.
La formula poliritmica cui ho fatto riferimento è ricorrente nel ragtime, antenato del jazz, e si ripete più volte, di norma fino a durare almeno quattro battute (si ascoltino, per esempio, “Gladiolus Rag†e “Pine Apple Rag†di Scott Joplin).
Il ragtime, benché debitore della marcia europea, se ne distingue, tra l’altro, proprio per la presenza di sincopi e formule poliritmiche come quella descritta (Winthrop Sargeant, 1975; Edward Berlin, 1980).
Questa ed altre formule basate sulla sovrapposizione di 3 su 2 o 2 su 3 (Aaron Copland, in “Jazz Structure and Influence on Modern Musicâ€, ha interpretato, giÃ* nel 1927, come un poliritmo la cosiddetta sincope senza legatura del ragtime) sono ricorrenti non solo nel ragtime, antenato del jazz, ma un po’ in tutto il jazz anche prima della rivoluzione del bebop, benché dal bebop in poi certi africanismi siano stati con consapevolezza sviluppati.
Un esempio per tutti: lo scat, modernissimo, di Louis Armstrong in “Hotter than That†nel 1927 con gli Hot Five, ma pure J. R. Morton ripropone la lontana matrice del percussionismo africano nello sfasamento ritmico fra mano destra e sinistra sul pianoforte, che è alla base anche dello stile di James Price Johnson e in genere dello stride.
Ma vi è molto di più.
Pur non potendosi negare che nella musica popolare brasiliana, per esempio, l’ereditÃ* africana è più ricca e più evidente (si pensi alla batucada), nel jazz primigenio l'andamento polifonico e poliritmico della tradizione africana è ripreso affidandone l’intreccio alle voci strumentali di derivazione europea (Luca Cerchiari, 2007).
Lo ha evidenziato Gunther Schuller (1968), che si è basato sulle trascrizioni del Reverendo Arthur Morris Jones di musiche degli Ewe del Ghana basate su strumenti a percussione.
In anni più recenti, Schuller è stato contraddetto, non saprei quanto a ragione, sia da Alfons Dauer (1985) che da Van Der Merwe (1989), per i quali all’origine del ritmo afroamericano ci sono gli ensemble di strumenti africani a fiato, ma entrambi gli studiosi sono pervenuti a risultati analoghi quanto alla matrice africana della poliritmia presente nel jazz delle origini.
Quanto alla poliritmia nella musica colta europea, direi che l’espediente esecutivo di pensare in 3/4 brani di epoca romantica (o di altra epoca) scritti in 6/8 è una questione completamente diversa, che nulla ha a che vedere con la poliritmia; direi anche che la musica di Strawinsky – e del Novecento – può essere ricchissima di poliritmi, ma anche questa è una questione diversa e, semmai, è stata la musica afroamericana a influenzare Strawinsky e non viceversa, almeno sotto questo particolare aspetto.
Quanto all'influenza degli italiani sul jazz primigenio, mi piace ricordare George Paoletti, Luigi Gabicci e Arno Loiacono, maestri rispettivamente di tromba, clarinetto e contrabbasso, che giÃ* da metÃ* Ottocento hanno contribuito alla formazione di tanti futuri jazzisti della prima ora; della enorme diffusione dell'opera italiana, profondamente amata per esempio da Armstrong e da Morton, rappresentata nella French Opera House, ma anche altrove a New orleans; di musicisti dixieland influenti come Tony sbarbaro, Frank Guarente, Charlie Cordilla, Leon Roppolo ... .
Di Kwabena Nkedia ho letto, circa quindi anni fa, “La Musica dell’Africaâ€, che trovo molto bello, oltre che straordinariamente istruttivo.