Oggi la musica di Monk gode di grande ammirazione ed è prontamente eseguita dai musicisti, tanto che il pianista è considerato il maggior compositore che il jazz abbia avuto dopo Ellington.
Ma negli anni 40, e anzi ancora per anni a venire, Monk fu giudicato da molti un eccentrico, quando non un vero spostato o un matto, e questo persino nell’ambiente poco convenzionale del bebop. Per quanto il suo stile incarnasse diverse innovazioni del bop, ne evitava molti dei tratti linguistici più caratteristici: i tempi vorticosi, la precisione virtuosistica che caratterizzano la maggior parte dei dischi di bop, sono clamorosamente assenti da quelli di Monk.
Thelonius costringeva i suoi gruppi a una sorta di swing marziale, baldanzoso, che si guadagnò la sinistra fama di spiazzare i musicisti meno accorti. Si racconta che il pianista abbia detto a Sahib Shihab “Sei un musicista? Ce l’hai la tessera del sindacato? E allora suona!” Un’uscita da despota, ma Monk aveva lavorato per così tanto tempo da meritarsi quella supremazia. Era da lui che Coltrane nel 56-57 andava giornalmente per migliorarsi e per “imparare” le contorte progressioni armoniche dei pezzi monkiani. L’intensità propria di tutti suoi dischi risulta da un lavoro di combinazione: sono celebri non per gli assoli improvvisati, ma per la loro unità, difficile ma alla fine vittoriosa, per un collettivismo che richiama molto lo spirito del jazz delle origini.