Infine l’inseguimento s’è compiuto: inaspettatamente, prima del previsto… evviva!
Da una decina di giorni soffio in uno splendido contralto Sequoia, modello Silver.
Esteriormente, lo strumento si presenta con il corpo e il collo in argento lucido, mentre la meccanica è dorata; la campana, oltre al logo Sequoia, sfoggia una discreta incisione a motivo di foglie; in generale, direi che è un oggetto assai elegante (poi, potrà o meno piacere la finitura, ma questo è altro discorso…).
Al collo, il sax Sequoia trasmette innanzitutto una sensazione di maggior consistenza rispetto ai sax da studio che avevo sin qui sperimentato: non li ho pesati, invero, ma il Sequoia mi dà proprio l’impressione di avere un bel po’ di materia in più (et pour cause, direte voi…).
Lo strumento è accompagnato di serie da una custodia rettangolare (c.d. modello “trekking”), dotata sia di tracolla singola sia di spallacci per indossarla a mo’ di zaino; internamente, oltre agli alloggiamenti individuali per corpo, collo e bocchino, offre una capiente zona per la tracolla e altri accessori; esternamente, vi sono due ampie tasche con cerniera per spartiti e altri ammennicoli; anche la chiusura è a zip, con una patta a velcro in corrispondenza della maniglia. Vengono inoltre forniti tracolla, bocchino (a occhio, in ebanite; senza marca; avendo già il mio, confesso di non averlo nemmeno testato…) e legatura metallica.
Come suona?
Temo — per la mia assoluta inesperienza — di non poter dare che un’impressione superficiale; tuttavia, dopo qualche verifica con l’intonatore, mi sembra perfettamente intonato su tutti i registri.
La meccanica mi pare un pochino più resistente rispetto al mio precedente ferretto (Trevor James “The Horn Classic II”), ma risponde comunque benissimo; la particolarità più evidente è che le chiavi del Mi bemolle/Do gravi (quelle che si azionano con il mignolo destro, per essere chiari) sono spostate sensibilmente più in avanti rispetto alla norma (o, quantomeno, a quelle disposizioni della tastiera che le prevedono sostanzialmente allineate alle chiavi del Fa diesis acuto e del trillo laterale), ma non ci vuole poi molto ad adattarcisi.
Inalterato il mio setup (becco Vandoren Optimum AL5, legatura Vandoren in pelle e ancia D’Addario Royal n. 3), il suono esce senza quasi sforzo apparente, tendenzialmente brillante (devo dire che ho una leggera preferenza per un suono chiaro, limpido, quasi freddo, à la Jan Garbarek per intenderci — non ho dubbi, però, che uno che sappia davvero suonare possa ricavarne anche sonorità più “scure”).
Come ho detto, non ho avuto modo di provare seriamente altri sax di livello professionale (la mia maestra mi ha fatto fare un giretto con il suo Selmer SA80-II: posso dire che anche quel sax mi aveva dato l’impressione di “suonare da solo”…), però la differenza con uno strumento “da studio” riesco a coglierla persino io.
Domanda: valeva la pena di dare in mano a un principiante come me uno strumento del genere?
La mia risposta: fossi stato un ragazzino (uno di quelli con qualche decennio in meno sul groppone, per intenderci), probabilmente no; probabilmente sarebbe stato più ragionevole farmi proseguire col TJ ancora per altri due o tre annetti. Ma siccome sono un “giovanotto più che maturo” , l’investimento ha comunque il suo perché: mi sgrava del tutto dalla zavorra mentale (a metà fra dubbio e giustificazione pretestuosa) che le eventuali porcherie possano essere colpa di uno strumento inadeguato.
No, caro mio: quell’obbrobrio che senti sei proprio e soltanto tu; quindi, meno ciance e studio, studio, studio!
E buona musica a tutti noi!
P.S.: in tutto ciò, doverosa menzione per Roberto Buttus, che — al di là delle sue capacità professionali — è persona simpaticissima e di squisita cortesia.