Zka ... mi piaci (aho, nun penzà a male ... :ghigno: ), perchè cerchi di essere profondo, di tentare di dare una spiegazione ad una situazione, "il suonare" che forse non è spiegabile, almeno da parte di chi ne è protagonista .... ovvero, spesso chi ascolta, pensa di percepire, capire, sentire, immaginare etc. cose che invece chi suona neanche immagina ..... Bill Evans suonava davanti a 10, forse meno, spettatori , neanche interessati alla musica ... al Village Vanguard ..... non perchè doveva essere un protagonista di una storia gloriosa (così si narra), suonava perchè doveva campare, perchè quello era il suo mestiere, suonare .... il resto è retorica di chi scrive libri, di di decide chi sono i vincitori e gli sconfitti (i discografici), .......
Visto che è Natale, vi voglio raccontare questa bellissima storia .......
JfI è l'intervistatore, GL è il pianista pugliese Gianni Lenoci .... vi prego, di seguire attentamente gli sviluppi della storia .......
JfI: Gianni, come e quando hai conosciuto Massimo Urbani?
GL: Ho conosciuto Massimo Urbani alla fine degli anni ‘80.
All’epoca vivevo a Roma. Mi ero diplomato in pianoforte al Conservatorio “S. Cecilia” ed avevo anche iniziato ad insegnare musica in un Liceo Sperimentale (che, guarda caso era lo stesso che una quindicina di anni prima aveva visto Massimo fra i banchi, se pur per un periodo brevissimo prima che abbandonasse la scuola per andare in tour con Giorgio Gaslini). Avevo iniziato a muovere i primi passi nell’ambiente jazzistico.
Una sera in televisione sul terzo canale trasmettono un concerto del quintetto di Giovanni Tommaso che oltre al leader aveva tra le fila Urbani, Fresu, Gatto e Rea.
Il concerto scorre liscio (era un quintetto di virtuosi), ma sull’ultimo brano (una specie di groove modale) Massimo prende un assolo impressionante. Mai sentito niente del genere. Io sono completamente investito da quella energia realmente spirituale e concreta al tempo stesso.
Il giorno dopo parlo di questa mia emozione con uno dei collaboratori scolastici (si chiamava Massimo anch’egli) che sapevo appassionato di jazz e lui mi dice: “Massimo è mio cugino. Quando usciamo da scuola lo chiamiamo. Anzi gli propongo di suonare con te”.
Così fu. Massimo al telefono fu gentilissimo: Mi disse: “Sto andando a Parigi per un omaggio a Charlie Parker con Daniel Humair. Chiamami fra quindici giorni e ci accordiamo”.
Dopo quindici giorni lo chiamo. Si ricorda perfettamente di me (non mi aveva mai visto in faccia, né mai sentito suonare). Gli chiedo se potevo proporre in giro un gruppo con lui come ospite. Mi dice di sì. Torno a casa. Faccio dieci telefonate a dieci club. Ottengo dieci risposte positive. Praticamente un tour.
Non mi è mai più successo nella mia vita.
JfI: io non riesco a scindere la figura di Max dalla rappresentazione di un’epoca, quegli anni Settanta che hanno messo in moto discussioni, stimoli, riflessioni e collettività. Periodo duro ed incantato allo stesso tempo in cui, forse, un mondo migliore sembrava possibile. La vicenda di Massimo Urbani, la sua forza e fragilità, la sua esplosione vitale e la sua tragica morte annunciata sono forse simbolo di quel sogno infranto?
GL: In parte sì. Perlomeno sul piano simbolico.
Riguardo la sua morte (veramente giunta inaspettata: ci eravamo sentiti per telefono cinque giorni prima di quel tragico evento per accordarci su due concerti che avremmo avuto in Molise i primissimi di luglio e mi aveva apostrofato ridendo: «Lenoci, vecchio ribaldo!», da notare la ricercatezza di quel “ribaldo” ) ho sviluppato varie congetture.
Ho sempre pensato che la cosa fosse evitabile.
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rimo: il rapporto con l’eroina non era così continuativo come i tossicodipendenti abituali hanno. Il problema vero secondo me era l’alcol. Quindi al limite sarebbe morto di cirrosi epatica. Cosa che onestamente ho temuto varie volte.
Secondo: era assolutamente incapace di “farsi”. L’unica volta che io sono stato testimone di uso di eroina da parte sua, l’ha fumata.
Ergo: qualche mistero c’è su quella morte c’è. Visto che si era sparato in vena non so quanto di eroina purissima. Ma sono solo delle mie teorie.
La società stava già comunque cambiando a vari livelli. E non sarebbe certo arrivato un tempo per poeti. O perlomeno, i poeti sarebbero stati sempre più ai margini.
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JfI: All’epoca dell’incisione di “Round About Max” non avevi ancora compiuto trent’anni ed avevi alle tue spalle un solo disco inciso con Bruno Tommaso ed Antonio Di Lorenzo. Oggi la tua discografia è molto più corposa e le tue collaborazioni non conoscono confini di sorta. Massimo Urbani aveva appena sei anni più di te ma aveva già un posto tra i grandi del jazz. Cosa provasti davanti a quel musicista?
GL: Suonare con Massimo Urbani è stata Università e Dottorato di ricerca messi insieme e ancor di più. E’ chiaro che da parte mia c’era un’impressionante dose di incoscienza mista a coraggio.
Ma non c’era né arroganza né supponenza in tutto ciò.
Io ero conscio della distanza abissale fra me e lui. Oltre che in termini di vera e propria esperienza, soprattutto riguardo il contenuto emozionale dei “solo”.
D’altro canto, la mia passione per il jazz era (ed è) divorante e mi dissi che se dovevo entrare in quel mondo era meglio che lo facessi entrando dalla porta principale. A costo di prendere qualche “incornata” (cosa che devo dire, non successe mai con Massimo).
Per tre anni non ho fatto altro che cercare occasioni per suonarci insieme e verificare se quello che stavo sviluppando in maniera autonoma ed indipendente riguardo il mio vocabolario potesse funzionare con lui. Ogni concerto era la lezione per il concerto successivo.
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Io ricordo benissimo il primo accordo che ho messo sotto il suo sax.
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Il primo dei famosi dieci concerti era programmato nel Jazz Club “Lennie Tristano” di Aversa. Durante il viaggio in auto Roma–Aversa, ascoltavamo musica dalla mia collezione di musicassette.
Massimo voleva ascoltare soprattutto cantanti.
Ascoltavamo quindi Astrud Gilberto (il disco era “The Silver collection”). Ad un certo punto mentre Astrud Gilberto cantava “The shadow of your smile”, Max mi dice: “Man, questo 'o famo stasera. Lo famo alla Sonny Stitt!”. Appena arrivati al club avviso il bassista e ci mettiamo a tirare giù gli accordi. Massimo vuole provare solo il tema (anche lui non aveva mai suonato quel pezzo sin d’ora) e vengo investito dalla stessa onda di energia che avevo avvertito ascoltandolo in televisione.
Anzi, molto di più. Senza cadere nella fumisteria hippy: veramente un’onda di vibrazioni.
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Mai sentito un suono così.
JfI: c’è un pezzo che ami particolarmente di questo disco?
GL: Ovviamente li amo tutti.
Se proprio devo sceglierne uno non posso che dire “The shadow of your smile”, per tutto ciò che significa quel brano.
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JfI: Cosa è rimasto in te, vent’anni dopo, di quell’incontro?
GL: A parte il ricordo struggente di alcuni momenti umani ed artistici passati insieme: idea del jazz come processo espressivo/creativo in continuo divenire e non applicazione passiva di formule e “stili”, visione spirituale del fare musica e visione politica (sociale) del ruolo dell’artista, valore dell’intuito sulla ragione, contrasto tra avanguardia e tradizione, aspirazione (meglio: tentativo continuo) di ricreare quella vibrazione avvertita sul mio accordo di Fa diesis min. quella sera al jazz club Lennie Tristano di Aversa.
JfI: Ci racconti come è nata quella seduta di registrazione?
GL: Partiamo da Roma, il 28 Novembre 1992. L’appuntamento era fissato per le 11 a casa di Massimo, in via Dati 5 .
L’avrei prelevato e saremmo partiti per Matera dove ci attendevano per la seduta di registrazione.
Arrivato a casa sua trovai Massimo ancora sotto le coperte che si preparava uno “svuotino” (per quanto posso testimoniare io non credo fosse capace di “rollare”), utilizzando come base d’appoggio un LP di Dizzie Gillespie. (Era il disco allegato ad un numero di Musica Jazz di qualche tempo prima). Questo rituale andò avanti per circa un’ora dopodiché balzò dal letto, si vestì ed assieme alla sua ragazza Valentina (finora assente dal quadro) che in quel momento usciva dal bagno, raggiungemmo la mia Peugeot 205.
Niente valigia. Niente sax!
Alla mia richiesta di chiarimenti circa la mancanza del sassofono, mi risponde qualcosa tipo: “Man, l’ho dovuto impegnare_Tranquillo, ce sarà a Matera uno che tiene un contralto da prestàmme….”
Trovata la prima cabina telefonica funzionante chiamo qualcuno a Matera, allertandolo circa la mancanza del sassofono.
Ad ogni modo ci mettiamo in viaggio (con un’ora e mezza abbondante di ritardo sulla tabella di marcia). Arriviamo a Matera verso le 19 e raggiungiamo immediatamente il cinema che era stato adibito a sala di registrazione.
Tutto “live”. Tutti sul palco, come un concerto.
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Incontro gli altri musicisti (Pasquale Gadaleta al contrabbasso ed Antonio Di Lorenzo alla batteria, i componenti del mio trio dell’epoca) ed il quartetto d’archi (che non avevo mai incontrato prima di quel momento). Io avevo scelto il repertorio, avevo mandato le parti in anticipo a tutti.
Avremmo provato e registrato direttamente varie takes. Il tutto in diretta.
Quasi tutti i brani appartenevano al repertorio di Urbani che suonavamo abitualmente, con l’eccezione di The Summer Knows di Michel Legrand e A Time for Love di Johnny Mandel che avevo mutuato dal repertorio di Bill Evans e che sotto l’aspetto squisitamente emotivo li sognavo interpretati da Massimo Urbani.
Stavo realizzando una visione.
Chiaramente, Massimo non ha le sue parti, dimenticate chissà dove.
L’aspetto interessante è che mi chiede di riscriverle escludendo le sigle degli accordi: “A Già, scriveme solo IL CANTO”.
Fortunatamente un appassionato sassofonista dilettante di Matera, (Franco Di Marzio, purtroppo poi prematuramente scomparso) innamorato dello stile di Paul Desmond, accondiscende a prestare il suo contralto Yamaha. Mentre il quartetto d’archi prova le sue parti, Massimo nel backstage ascolta le armonie degli archi mentre fuma l’ennesima “canna” (aveva eletto uno dei tecnici come “rollatore” ufficiale) e scherza con il proprietario del sax; quest’ultimo chiaramente eccitato e preoccupato allo stesso tempo. Si decide di registrare prima i brani con gli archi e poi tutti gli altri. Si aprono i microfoni. Massimo chiede di registrare una take direttamente senza prove.
Estrae dalla tasca della giacca il suo bocchino, prova una scala producendo un suono incredibile come se stesse suonando un Selmer o un Conn costosissimi e si parte.
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Risultato: prima prova (di lettura!): prima take fatta!!
Per farla breve: tutto il disco è stato registrato così. TUTTO FIRST TAKE!
Un’ora dopo il primo suono di sassofono era finito tutto.
Testuali parole sue a conclusione: “Me dovete pijà così... ar primo colpo!”
Non so quanto coraggio, incoscienza o spregiudicatezza ci fosse da parte nostra (da parte del Trio, intendo). Certo è che a me sembrava realmente di stare nel jazz entrando dalla porta principale.
Col senno di poi tantissime cose si sarebbero potute realizzare meglio, ma eravamo veramente low budget e lo spirito che ci animava era lontanissimo dal perfezionismo e dallo star system di oggi.
Si cercava solo di catturare un emozione e conservarla per sempre.
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Quello spirito è rimasto intatto.
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Massimo Urbani (alto sax),
Gianni Lenoci (piano),
Pasquale Gadaleat (bass),
Antonio Di Lorenzo (drums)
Marzia Mazzoccoli (I violino)
Anna Tenore (II violino),
Vincenzo Longo (viola),
Davide Viterbo (violoncello)
Tracklisting:
Part One
1) The Summer Knows - 7:37
2) The Shadow of Your Smile - 5:43
3) I Cover the Waterfront - 4:36
4) Star Eyes - 5:55
Qu il resto della storia ......
http://jazzfromitaly.blogspot.it/search ... %20Massimo
The Summer Knows . ...... :cry:
........ Man, l’ho dovuto impegnare (il sax) ..........Tranquillo, ce sarà a Matera uno che tiene un contralto da prestàmme….”